Mah…anno dopo anno capisco sempre meno il mondo cicloamatoriale. Sarà che una serie di eventi mi ha fatto conoscere più da vicino questo spaccato sportivo, ma credo che la situazione stia un po’ degenerando.
Mi sono avvicinato a questo sport 18 anni fa e da allora la mia percezione ciclistica è discretamente cambiata. I miei “cavalli da battaglia” fino ad ora erano concentrati sullo scarso gradimento teorico/pratico degli amici e l’odio “a prescindere” da parte degli automobilisti. Poi mi sono convinto che le passioni (seppur diffuse) possano non essere gradite dalle persone attorno e che c’è un limite tra preteso rispetto ed arroganza ciclistica. Anche se poi l’arroganza automobilistica (e a volte pure quella pedonale) supera di gran lunga qualche vezzo del pedale. In ogni caso è meglio che in bicicletta continuino ad andarci i ciclisti, l’utente medio della strada probabilmente sparerebbe a parti invertite.
Ma non è questo il punto.
Con tutta probabilità il “virus della bici da corsa” mi è stato trasmesso geneticamente da mio padre, sperimentatore di una brevissima carriera sportiva giovanile ed attuale appassionato. Acquistandomi dapprima una piccola Bianchi usata all’età di 9 anni e poi cercando di sviarmi inutilmente dall’emergente moda delle mountain bike verso la fine degli anni ’80. Anche se poi la “scintilla” mi è nata da sola all’età di 17 anni.
Una quindicina d’anni di pedalate senza tesseramenti né velleità agonistiche si è tramutata ultimamente in quello che io definisco “giocare a fare i professionisti”.
Ed è qui il punto.
Non sono d’accordo sul concetto paterno (ebbene si…ancora lui) secondo cui le “gare” sono un’altra cosa, l’ipotetica trafila da “Giovanissimi” ad “Elite” (i cosiddetti professionisti), ma incomincio a compatire certi individui.
Mi pare che lo sport amatoriale stia perdendo sempre più il suo spirito, trasformandosi in un mondo parallelo per atleti frustati. Insomma…vanno bene Granfondo e gare in circuito senza dimenticarsi che i Giri d’Italia e le Milano-Sanremo sono riservate ad altre categorie. Le nostre manifestazioni sono già “inquinate” da ex professionisti ed atleti più o meno redenti da problemi di doping, cerchiamo di preservare almeno la dignità. Lodevole è la dedizione e necessaria la competizione con gli altri appassionati, ma per favore cerchiamo di non cadere nel ridicolo. Mi fanno sorridere i forum in cui cambiare il colore della maglia viene definito “ciclo mercato”, l’estremizzare sempre di più la dotazione e l’ allenamento, considerare “mito locale” gente che alla domenica porta a casa una coppa ed un pacco di pasta. Il tutto in una specie di guerra tra società, alimentata da negozi di biciclette che magari non regalano neanche un gadget al “semplice” cicloamatore tesserato, ma viziano una manciata di atleti “di punta” in un clima di consensi diffusi.
Negli ultimi anni (per amicizie/abitudine) ho pagato una maglia sponsorizzata trascorrendo il mio tempo al di fuori dell’ambiente ad esso legata, facendo acquisti ciclistici dove meglio preferivo.
Ora grazie ad un progetto “privato” spero di ritornare al giusto spirito cicloamatoriale, in cui la vita di gruppo si alterni alla libertà individuale, non ci siano preferenze di trattamento e si “giochi” a fare i professionisti in maniera lucida. Cercando di raggiungere un buon allenamento e trascorrendo la vita di team (compresa una birra) in un clima più “intimo”. Se poi verrà qualche risultato ancora meglio!
O per lo meno ci abbiamo provato!
Mi sono avvicinato a questo sport 18 anni fa e da allora la mia percezione ciclistica è discretamente cambiata. I miei “cavalli da battaglia” fino ad ora erano concentrati sullo scarso gradimento teorico/pratico degli amici e l’odio “a prescindere” da parte degli automobilisti. Poi mi sono convinto che le passioni (seppur diffuse) possano non essere gradite dalle persone attorno e che c’è un limite tra preteso rispetto ed arroganza ciclistica. Anche se poi l’arroganza automobilistica (e a volte pure quella pedonale) supera di gran lunga qualche vezzo del pedale. In ogni caso è meglio che in bicicletta continuino ad andarci i ciclisti, l’utente medio della strada probabilmente sparerebbe a parti invertite.
Ma non è questo il punto.
Con tutta probabilità il “virus della bici da corsa” mi è stato trasmesso geneticamente da mio padre, sperimentatore di una brevissima carriera sportiva giovanile ed attuale appassionato. Acquistandomi dapprima una piccola Bianchi usata all’età di 9 anni e poi cercando di sviarmi inutilmente dall’emergente moda delle mountain bike verso la fine degli anni ’80. Anche se poi la “scintilla” mi è nata da sola all’età di 17 anni.
Una quindicina d’anni di pedalate senza tesseramenti né velleità agonistiche si è tramutata ultimamente in quello che io definisco “giocare a fare i professionisti”.
Ed è qui il punto.
Non sono d’accordo sul concetto paterno (ebbene si…ancora lui) secondo cui le “gare” sono un’altra cosa, l’ipotetica trafila da “Giovanissimi” ad “Elite” (i cosiddetti professionisti), ma incomincio a compatire certi individui.
Mi pare che lo sport amatoriale stia perdendo sempre più il suo spirito, trasformandosi in un mondo parallelo per atleti frustati. Insomma…vanno bene Granfondo e gare in circuito senza dimenticarsi che i Giri d’Italia e le Milano-Sanremo sono riservate ad altre categorie. Le nostre manifestazioni sono già “inquinate” da ex professionisti ed atleti più o meno redenti da problemi di doping, cerchiamo di preservare almeno la dignità. Lodevole è la dedizione e necessaria la competizione con gli altri appassionati, ma per favore cerchiamo di non cadere nel ridicolo. Mi fanno sorridere i forum in cui cambiare il colore della maglia viene definito “ciclo mercato”, l’estremizzare sempre di più la dotazione e l’ allenamento, considerare “mito locale” gente che alla domenica porta a casa una coppa ed un pacco di pasta. Il tutto in una specie di guerra tra società, alimentata da negozi di biciclette che magari non regalano neanche un gadget al “semplice” cicloamatore tesserato, ma viziano una manciata di atleti “di punta” in un clima di consensi diffusi.
Negli ultimi anni (per amicizie/abitudine) ho pagato una maglia sponsorizzata trascorrendo il mio tempo al di fuori dell’ambiente ad esso legata, facendo acquisti ciclistici dove meglio preferivo.
Ora grazie ad un progetto “privato” spero di ritornare al giusto spirito cicloamatoriale, in cui la vita di gruppo si alterni alla libertà individuale, non ci siano preferenze di trattamento e si “giochi” a fare i professionisti in maniera lucida. Cercando di raggiungere un buon allenamento e trascorrendo la vita di team (compresa una birra) in un clima più “intimo”. Se poi verrà qualche risultato ancora meglio!
O per lo meno ci abbiamo provato!
Nessun commento:
Posta un commento